Nel giorno di Ayrton un pensiero anche per Roland. Uniti per sempre loro che erano lo yin e lo yang della Formula 1
Ecco il ricordo che ho scritto per il Giornale, dove Giancarlo Minardi ha raccontato il suo Senna.
Roland Forever. Margit e Rudolf Ratzenberger saranno a Imola anche quest’anno per ricordare quel figlio andatosene troppo presto trent’anni fa. Gli anni passano, ma loro continuano a combattere per allungare il ricordo di quello che era, è, e sarà per sempre il morto del giorno prima. Roland se ne è andato il 30 aprile, Ayrton il giorno dopo a poche centinaia di metri di distanza. Uniti per sempre. Il miglior pilota del mondo e il ragazzo che aveva trovato il budget per correre 5 gare hanno trovato lo stesso destino a 24 ore uno dall’altro e da quel maledetto weekend restano uniti per sempre.

Se ricordi Ayrton non puoi dimenticare quello che è capitato a Roland il giorno prima. Se Roland fosse morto su un’altra pista, in un altro giorno, oggi non verrebbe ricordato con tanto affetto. Trent’anni dopo hanno prodotto anche una docu-serie per raccontare quel ragazzone che era andato in Giappone a cercare fortuna e una via per arrivare alla Formula 1. Tornare a Imola per Margit e Rudolf è faticoso, ma fin che potranno continueranno a farlo per onorare la memoria di Roland. Quel 30 aprile di 30 anni fa erano a casa. Davanti alla tv: “Quando ho visto la piega della sua testa – ricorda – ho capito che era tutto finito. Ero alla tv e dovevo cercare il modo di dirlo a mia moglie che era in cucina”.
Quando torna a Imola va alla curva Villeneuve dove Roland ha chiuso gli occhi per sempre. Si siede in tribuna e recita una preghiera. Depone un mazzo di fiori. “Sono passati 30 anni, ma la gente non ha dimenticato Roland. Riceviamo ancora un sacco di lettere, di mail, di gente che ci parla di Roland e lo vuole ricordare. Anche a Imola non lo hanno mai dimenticato quando celebrano Ayrton”. Nella docu-serie si vedono Margit e Rudolf sfogliare l’album dei ricordi con le foto di Roland bambino, sul triciclo, sulla biciclettina, in braccio a papà al volante del vecchio Bedford del nonno. Oggi Margit e Rudolf vivono nella casa con vista sui monti che aveva comprato Roland con i suoi primi risparmi. “Roland era un grande amico. Abbiamo trascorso un sacco di serate insieme a ridere e scherzare perché gli piaceva essere così… ma mai una volta che mi abbia offerto da bere o da mangiare. Diceva che doveva risparmiare fino all’ultimo centesimo per comprare una casa nuova ai suoi genitori”, ha raccontato Mika Salo che con lui ha condiviso la vita giapponese e che ha voluto chiamare Roland il suo secondo figlio.
Oggi un piano di quella casa è pieno di ricordi da corsa. Un piccolo museo dedicato a Roland. “La sua prima parola è stata macchina. Stava per ore con la nonna a vedere le auto che passavano davanti a casa e a quattro anni conosceva già tutti i marchi”. Roland aveva nove anni quando, vicino alla casa di famiglia, aprì il Salzburgring. Il piccolo Roland stava ore con il naso appiccicato alle reti per vedere le macchine che giravano. Poi un giorno tornò a casa e disse “Farò il pilota da corsa”.
“Non eravamo esattamente contenti della sua scelta”, dice Rudolf che era un dipendente pubblico, non aveva certo i denari per aiutarlo. “Non potevamo sostenerlo finanziariamente ed eravamo preoccupati che avesse un futuro dignitoso. Naturalmente conoscevamo anche i rischi, ma non abbiamo mai avuto paura per la sua incolumità. Per noi le corse erano un mondo lontano. Certo, i successi di Jochen Rindt e Niki Lauda mi hanno fatto conoscere la Formula 1, ma non sono mai stato un appassionato di sport motoristici. Roland si è preso il virus da solo. Ricordo ancora che aveva un poster di Rindt sul muro della sua camera da letto”.
Quando Roland è finalmente arrivato in Formula 1 nel 1994, i suoi genitori non hanno certo avuto paura: ”Roland ci aveva assicurato che correre in Giappone, con così tanti piloti inesperti in pista, era molto più pericoloso e che le auto in F1 erano le più sicure di tutte … L’ultima immagine che ho in mente di mio figlio è quando l’ho visto all’ospedale di Bologna per il riconoscimento: sembrava dormisse”. Non aveva fatto i conti con quella Simtek che si divideva con David Brabham, un figlio d’arte. Con quell’ala anteriore che volò via dopo che lui aveva preso un cordolo. Con quell’auto diventata inguidabile proprio mentre viaggiava a trecento all’ora verso la Villeneuve. Lo stava aspettando il destino. Quello che il giorno prima aveva salvato Barrichello e il giorno dopo avrebbe inghiottito anche il più grande di tutti.
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